In caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase
terminale, il medico deve limitare la sua opera all'assistenza morale e alla
terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al malato i trattamenti
appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità di vita.
In
caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella
terapia di sostegno vitale finchè ritenuta ragionevolmente utile.
Commento:
Questo articolo in connessione con l’art. 14 "accanimento
diagnostico-terapeutico" affronta il delicato tema dell’assistenza al malato
inguaribile. Si tratta di una serie di indicazioni fornite al medico riguardanti
l’atteggiamento che lo stesso deve osservare nel momento in cui si trova di
fronte a malattie in fase terminale.
La correzione del titolo che nel
vecchio codice era "accertamento della morte" è giustificata dalla scelta di
inserire l’ultimo comma che recita: "Il sostegno vitale dovrà essere mantenuto
sino a quando non sia accertata la perdita irreversibile di tutte le funzioni
dell’encefalo" nell’articolo successivo, laddove si tratta di prelievo di parti
di cadavere.
Questo articolo riguarda l’esercizio professionale proprio del
medico ovvero non limitato all’applicazione delle sole competenze tecniche,
bensì allargato all’elemento umano, etico-deontologico. Si fa riferimento ad una
assistenza di tipo morale, a una scelta terapeutica che attende alla guarigione
del paziente in considerazione della situazione terminale dello stesso, ma che
comunque è atta a rendere l’ultima parte della vita degna di essere
vissuta.
Le norme di questo articolo individuano i comportamenti pratici in
cui devono tradursi i principi informatori dell'attività medica di fronte ai
malati terminali e alla morte.
Nel primo comma, sulla scia di quanto già
espresso agli artt. 14 e 20, al medico che si trovi a prestare la propria opera
nei confronti di un malato incurabile, in fase terminale, viene,
preliminarmente, indicato come presupposto fondamentale ed imprescindibile la
conoscenza della volontà del paziente sugli interventi terapeutici
praticabili.
Fermo il divieto di accanimento terapeutico, individuato
all'art.14, il medico nel rispetto di detta volontà dovrà, pertanto, adoperarsi
nella effettuazione di quell'insieme di trattamenti denominati cure
palliative.
L'importanza di tali trattamenti viene rilevata nello specifico
documento del C.N.B. ove, appunto, si afferma che "le cure palliative
costituiscono una risposta adeguata al bisogno di assistenza dei malati
inguaribili. (omissis)"
"Il malato inguaribile proprio per la sua condizione
di sofferenza ha bisogno di continue cure finalizzate non a prolungare ad ogni
costo e con ogni mezzo la vita, bensì a migliorarne la qualità: attenzioni
rivolte all'assistenza psicologica al paziente ed alla famiglia, al sostegno
spirituale, al trattamento dei sintomi, alla terapia del
dolore".
Particolarmente efficace risulta, poi, la distinzione operata nel
medesimo documento, che è la stessa fatta propria dal codice deontologico, tra
cure palliative e accanimento terapeutico, che viene definito quale "segno di
una medicina che ha perso il vero obiettivo della cura: una medicina che non si
rivolge più alla persona malata, ma alla malattia e che avverte la morte come
una sconfitta e non come evento naturale ed inevitabile. Le cure palliative, al
contrario, danno sostegno e significato all'accompagnamento del morente e sono
espressione di una medicina che si ricolloca al servizio della persona
malata."
Le cure palliative sono, inoltre, considerate il più efficace
antidoto alla richiesta di eutanasia che spesso è una fuga da una situazione
esistenziale umanamente intollerabile che può essere ovviata solo da una diversa
qualità dell'assistenza al morente, non burocratica ed impersonale, ma in cui
siano effettivamente create le condizioni per morire con dignità.
Nel secondo
comma viene affrontato il problema del sostegno vitale ai malati con
compromissione dello stato di coscienza, lasciando sostanzialmente al medico la
scelta di protrarre le terapie di sostegno vitale.
E' evidente che nella
categoria di tali malati vanno ricomprese diverse tipologie di alterazioni di
stati di coscienza più o meno gravi e dei quali può non essere possibile la
formulazione di prognosi certa. In questi casi il medico è posto davanti a
pesanti interrogativi sulle scelte da operare in merito alle terapie di
sopravvivenza di pazienti interessati da tali situazioni.
Il codice non
opera, ovviamente, al riguardo alcuna classificazione circa l’alterazione degli
stati di coscienza dettando un principio di ordine generale che fissa nella
utilità, da intendersi ai fini di una possibile ripresa, il criterio cui il
medico, in particolare il rianimatore, deve attenersi nella scelta del
proseguimento dell’assistenza.
Appare questa una scelta di grande equilibrio,
soprattutto con riferimento a situazioni enormemente complesse, nei riguardi
delle quali è in corso un ampio dibattito in campo sia scientifico che etico.
Per queste ragioni si è ritenuto opportuno lasciare al giudizio del medico,
secondo le conoscenze offertegli dalla scienza e le considerazioni d'ordine
morale che derivano anche da dette conoscenze, l’utilità del mantenimento delle
terapie di sostegno vitale.