titolo 3° - RAPPORTI CON IL CITTADINO

CAPO V - ASSISTENZA AI MALATI INGUARIBILI


Art. 36 Eutanasia

Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a provocarne la morte.

Commento:

Il Capo V del nuovo codice di deontologia medica dedicato all’assistenza dei malati inguaribili si apre con l’art. 36, volto specificamente al tema dell’eutanasia. Il problema estremamente delicato è stato impostato in modo lievemente differente dalla precedente stesura del codice.
L’attuale stesura del testo art. 36, particolarmente stringata, mira esplicitamente e direttamente a ribadire, in maniera inequivoca, il divieto per il medico di effettuare o favorire trattamenti diretti a provocare la morte del malato.
Si intende esplicitare il divieto per il medico, non solo, di effettuare trattamenti sul paziente volti a provocare la morte, ma anche il divieto di favorire, attraverso comportamenti vari, anche semplicemente indiretti, la morte del paziente provocata da lui stesso o da altri.
E' evidente che una tale norma richiede un approfondimento sia su cosa si debba intendere per eutanasia, sia sul compito del medico di fronte a situazioni di patologie incurabili, sia, infine, sulla relazione fra tale compito e l'autodeterminazione degli assistiti in merito alla propria vita.
Attualmente, secondo le norme vigenti, nei casi di eutanasia attiva su persona consenziente si ha la realizzazione della ipotesi di reato di omicidio di cui all'art.579 c.p.
Secondo la previsione di tale articolo, però, si procede all'applicazione delle disposizioni relative all'omicidio volontario, nel caso in cui il fatto sia commesso "contro persona inferma di mente, o che si trovi in condizioni di deficienza psichica per un'altra infermità".
Come è noto, in alcuni Stati, quali l'Olanda, già da qualche anno, pur non essendo pervenuti ad un riconoscimento della legittimità dell’eutanasia volontaria, che in teoria è perseguibile penalmente, si è dettata una regolamentazione delle modalità e delle procedure secondo cui la stessa può essere attuata, nella forma di suicidio assistito, da parte di un medico.
Tutto ciò nel nostro Paese non è accettato nè a livello giuridico, nè a livello etico dal C.N.B. e neanche sul piano della deontologia medica.
Il codice ha anche tenuto presente il diritto del malato terminale a non essere oggetto di terapie dolorose ed inutili, di decidere consapevolmente in merito ai trattamenti cui sottoporsi ed alla qualità dell'ultimo tratto della sua vita.
Tutto ciò secondo un indirizzo per cui il medico, attraverso il rispetto e la tutela di tali diritti del malato, diviene un soggetto centrale "per la promozione della dignità del paziente terminale", per l'affermazione di una diversa "cultura della morte e del morire", mutuando espressioni significative del documento del C.N.B.
Ed è proprio secondo tale prospettiva che la posizione del codice è nettamente negativa nei confronti dell'eutanasia.
L'accettazione dell'eutanasia, infatti, oltre che al rispetto della volontà del malato, è spesso il portato di una visione della vita secondo cui questa sia da considerare senza valore se gravata di difficoltà o sofferenza, o se privata dell'autonomia, intesa come autosufficienza, o dell'efficienza in senso produttivistico.
Nella prospettiva, poi, dell'utilitarismo sociale l'eutanasia in alcuni Paesi trova giustificazione nella opportunità di impiegare risorse economiche solo nella cura di malati che per età e per tipo di patologia possano avere un recupero in termini di produttività.